Cannabis: il consumo è in aumento, lo dicono i numeri. Quali sono le conseguenze sulla salute mentale?

sorrento-audace-cerignola-3244084.660x368Cannabis: dati e numeri sull’uso

I derivati della cannabis, in base ai dati forniti dai principali organismi internazionali operanti nell’ambito del contrasto alla diffusione delle sostanze stupefacenti, costituiscono la prima droga d’abuso in Europa: 40 milioni di individui l’hanno utilizzata e in media, una persona su quattro, di età compresa tra i 15 ed i 34 anni l’ha provata (Schiavone,2002).

Nella Relazione europea sulla droga del 2018, pubblicata lo scorso 7 giugno dall’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (EMCDDA), viene riportato che l’Italia è il terzo paese dell’Unione Europea per uso di cannabis. I dati raccolti si riferiscono agli anni 2016-17, ed è stato stimato che la cannabis sia stata consumata da circa 24 milioni di persone con età compresa tra i 15 e i 64 anni, di cui 17,2 milioni con età compresa tra i 15 e i 34 anni.

Secondo dati provenienti da indagini condotte sulla popolazione, in media il 31,6% dei giovani adulti europei (15-34 anni) ha utilizzato la cannabis almeno una volta nella vita, mentre il 12,6% ne ha fatto uso nell’ultimo anno e il 6,9% nell’ultimo mese. Una percentuale ancora più alta di europei appartenenti alla fascia dei 15–24 anni ha utilizzato la cannabis nell’ultimo anno (15,9%) o nell’ultimo mese (8,4%) (Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, 2010). dati sul consumo di cannabis potrebbero cambiare ulteriormente se si tiene conto del boom di aperture dei grow shop, le attività commerciali dove si può vendere la cannabis legale.

Nel dettaglio la legge italiana vieta la vendita a scopi ricreativi di cannabis con un principio attivo di THC superiore allo 0,6%, poiché questa provoca degli effetti stupefacenti; è del tutto legittima invece la vendita dei prodotti derivati dalla canapa con un THC notevolmente inferiore alla suddetta soglia (Micocci, 2018).

Oggi si contano più di 600 punti vendita in tutta Italia, alcuni dei quali aperti giorno e notte (Scavo, 2018).Cannabis: comorbilità con disturbi psichiatrici

Ma quanti conoscono le reali conseguenze del consumo assiduo e reiterato di questa sostanza? Esiste un legame tra l’utilizzo di cannabis e i diversi disturbi psichiatrici?

La comorbilità, o doppia diagnosi, è definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come la coesistenza nel medesimo individuo di un disturbo dovuto al consumo di sostanze psicoattive e di un altro disturbo psichiatrico.

Il consumo di cannabis si è dimostrato essere associato ad un aumentato rischio di disturbi mentali. Gli effetti collaterali del consumo di cannabis dipendono dalla modalità di somministrazione, dalla dose ricevuta, dal tempo di utilizzo, dalle aspettative del consumatore e dalla sua personalità. Il rischio di insorgenza di disturbi psichiatrici è molto alto: nei soggetti vulnerabili, comprese le persone che hanno usato cannabis durante l’adolescenza, nei soggetti che in precedenza avevano sperimentato sintomi psicotici e in quelli ad alto rischio genetico di disturbi psichiatrici (Iacucci, 2014).

L’assunzione di cannabis induce la comparsa di effetti psicoattivi che, generalmente, includono anche sensazioni piacevoli: calma, rilassatezza, euforia e emozioni amplificate. Tuttavia, alcuni soggetti possono sperimentare reazioni ben più spiacevoli: dispercezioni, distorsione temporale, depressione, paranoia, depersonalizzazione, derealizzazione, ansia o attacchi di panico, sensazione di perdita del controllo e paura di morire, che, seppur spesso transitorie, nei consumatori abituali possono persistere e ricorrere nel tempo (D’Souza et al, 2009; Thomas, 1993). Può indurre, inoltre, anche in soggetti sani, sintomi psicotici positivi e negativi, nonché deficit cognitivi analoghi a quelli della schizofrenia. Tali sintomi, in genere temporanei, possono comportare in individui vulnerabili successive, severe manifestazioni psichiche correlate alle sostanze (D’Souza et al, 2009).

Cannabis e insorgenza di psicosi

Ci sono due ipotesi che possono spiegare l’insorgenza di psicosi legato al consumo di cannabis. La prima sostiene che lo stato psicotico può verificarsi sia come risultato di uno specifico effetto farmacologico della sostanza, che come il risultato di esperienze stressanti vissute durante l’intossicazione da cannabis.

La seconda ipotesi è che l’uso della stessa possa generare schizofrenia, o aggravarne i sintomi, in un individuo vulnerabile o predisposto. In particolare l’uso regolare e continuativo sembrerebbe quadruplicare il rischio di sviluppare un Disturbo Schizofrenico (Hautecouverture et al., 2006).

Alcuni studi, che hanno esaminato gli effetti del consumo di cannabis negli adolescenti, hanno rilevato una forte correlazione tra l’uso della sostanza e l‘insorgenza di molti disturbi psichiatrici, come: psicosi da cannabis, depressione e attacchi di panico. Si è rilevato, inoltre, un alto rischio di insorgenza di ideazione suicidaria e di tentativi di suicidio (Iacucci, 2014).

In uno studio longitudinale, condotto in Svezia, su 50.465 maschi svedesi, il follow up condotto dopo 15 anni, ha rilevato che coloro che avevano cominciato a consumare cannabis a 18 anni avevano una probabilità due volte e mezzo maggiore, rispetto ai non consumatori, di ricevere una diagnosi di schizofrenia (Andreasson et al., 1987).

Concludendo, gli studi revisionati hanno dimostrato che gli effetti della cannabis a lungo termine sono spesso sottovalutati e che la maggior parte dei consumatori non conosce i pericoli che un uso/abuso reiterato può causare.

Cannabis: il confine tra benefici e danni

Nel 1961 la Cannabis è stata etichettata come molto pericolosa, ma ora alcuni Paesi la stanno rivalutando, alla luce anche delle nuove scoperte farmacologiche fatte negli ultimi decenni, che hanno portato una nuova ondata di interesse sulle proprietà strutturali e fisiologiche della sostanza, interesse che è aumentato anche a seguito della pubblicazione di numerosi studi sui benefici della cannabis (Campbell, et all.,2001; Lynch e Campbell, 2011), indicandola come un agente terapeutico promettente.

L’aumento dell’evidenza clinica della CTP (cannabis a scopo terapeutico) è stato accompagnato in molti Paesi da un aumento delle pressioni sociali e politiche per cambiare i quadri normativi e legalizzarne quindi l’uso medico. Dal 2013, in Italia è possibile prescrivere cannabis terapeutica (sempre a pagamento). La prescrizione a carico del Servizio Sanitario Nazionale, unicamente per uso terapeutico, è praticabile solo in Toscana, Puglia, Liguria, Campania e in Veneto, ma con limitazioni ulteriori rispetto alle regole nazionali. La prescrizione di cannabis a uso medico in Italia riguarda: il dolore cronico e quello associato a sclerosi multipla e a lesioni del midollo spinale; la nausea e il vomito causati da chemioterapia, radioterapia, terapie per Hiv; la stimolazione dell’appetito nella cachessia, anoressia o in pazienti oncologici o affetti da Aids e nell’anoressia nervosa; l’effetto ipotensivo nel glaucoma; la riduzione dei movimenti involontari del corpo e facciali nella Sindrome di Tourette.

Le prescrizioni si effettuano quando le terapie convenzionali o standard sono inefficaci. Tuttavia, le evidenze scientifiche sui benefici, i dosaggi, le modalità di allestimento, la stabilità del preparato somministrato sono solo alcuni dei dubbi che ancora restano sul corretto utilizzo della cannabis a scopi medici: sono necessari nuovi e più approfonditi studi sulla questione.

 

Dott.ssa Cinzia D’Esposito – Psicologa, Psicodiagnosta. Per info: 335 613 8502

LA CRISI ESISTENZIALE: COME RICONOSCERLA E AFFRONTARLA

Uno dei motivi più frequenti che oggi spinge le persone a richiedere una consultazione psicologica è una dolorosa sensazione di mancanza di un senso profondo che motivi il proprio esistere, comunemente definita crisi esistenziale.

Spesso si tratta di individui che apparentemente conducono un’esistenza tranquilla, sembrano realizzati dal punto di vista lavorativo, hanno degli affetti, eppure soffrono a causa di una dolorosa sensazione di vuoto, di mancanza di senso, accompagnata da un’affettività abbattuta, privata di energie. Le crisi esistenziali sono in continuo aumento e sempre più persone si trovano spaesate nella ricerca e realizzazione di se stessi e dei propri desideri.

Tutti i cambiamenti di vita (lutti, fallimenti, matrimonio, convivenza, laurea, insuccessi scolastici, lavorativi, cambiamenti di lavoro, nascita di un figlio, cambiamenti di abitazione, adolescenza, la prima età adulta, il pensionamento, ecc.) che apportano stress possono comportare un cambiamento dell’immagine di Sé e una perturbazione emotiva che può durare, a seconda di ognuno di noi, più o meno a lungo ed essere più o meno intensa. Non esiste un evento di per sé più o meno stressante, ma la sua intensità dipende da chi lo vive e da come viene vissuto. Questo vuoto interiore genera poi anche una forte crisi di identità e gli stessi ruoli abituali, famigliari, lavorativi, di studio ecc, sembrano essere diventare estranei e perdono il loro potere di coinvolgimento, per cui, tutte le responsabilità connesse saranno disattese.

Per far fronte a questa condizione di malessere che nel tempo può diventare sempre più pervasiva, contagiando con la sua negatività le diverse situazioni di vita, le persone possono cercare ”facili rimedi”. Vediamo insieme i più frequenti e le loro insidie: il rimedio apparentemente più “facile” perché più a portata di mano e meno costoso in termini di investimento personale è lo psicofarmaco, in grado di offuscare il disturbo ma il rischio è che non avvenga un passaggio fondamentale per la risoluzione della crisi ovvero la “presa in carico di sé” piuttosto. Molto diffuso soprattutto tra i giovani è il ricorrere all’uso di stupefacenti e alcol, al fine di ridurre quel senso di angoscia, di agitazione emotiva che sembra priva di particolari contenuti e significati. Sempre sulla linea dello “stordimento di coscienza“, un’altra strategia, tipica della nostra società, è l’impulso all’acquisto esagerato, lontano dai bisogni reali dell’individuo. Se accade questo la persona che soffre a causa di una crisi esistenziale permane in una sorta di limbo, in cui la vera causa del malessere diviene difficilmente accessibile.

È il prezzo che si paga quando si permane in una condizione di fuga dal dolore psichico, evocato dalla propria storia personale: “per evitare di soffrire blocco la strada che mi potrebbe condurre verso le radici più profonde del mio star male”.

Quindi ricapitolando, i sintomi di una crisi esistenziale sono:

  • perdita di senso e di significato della propria vita e della vita in generale
  • senso di vuoto accompagnato da stanchezza fisica e psichica
  • mancanza di motivazione e di interesse allo svolgimento dei compiti della vita
  • indifferenza ed estrema difficoltà a far fronte a situazioni di vita impreviste, importanti e dolorose
  • apatia interiore ed esteriore che si manifesta anche col “lasciarsi andare”
  • mancanza di senso di appartenenza alla famiglia e alla società
  • rifugio nelle droghe, nel gioco, e in atteggiamenti e teorie mistiche e fuorvianti.

Dunque, cosa fare? Il trattamento delle crisi esistenziali consiste nel guardare al passato e rivedere la propria storia personale. Ma perché è necessario guardare al passato, ed in che modo una crisi esistenziale attuale dipende da situazioni antiche rispetto alle quali si era deciso di mettere una pietra sopra? Cambiano i personaggi e la scena ma la storia è sempre la stessa. Questo è il punto di partenza per chi vuole affrontare e risolvere una crisi esistenziale: iniziare a mettere ordine nella trama del proprio Sé, prendendo gradualmente coscienza di come quel passato doloroso pesi ancora sul vissuto attuale continuando a condizionarlo. Spesso la crisi affonda le sue radici in difficili vissuti familiari, in conflitti passati irrisolti all’interno della propria famiglia che si trascinano di generazione in generazione.

Lo psicologo può essere la guida, il compagno di viaggio che mostra la strada del cambiamento. Affrontare tutto questo non è facile e soprattutto non è immediato, richiede tempo e impegno costante, ma è la via obbligata per conoscere davvero se stessi.

 

Dott.ssa Cinzia D’Esposito, Psicologa, esperta in Psicodiagnostica clinica e peritale – per info: +39 3356138502

I BAMBINI E L’USO DEI DISPOSITIVI TECNOLOGICI

I bambini cominciano sempre più precocemente a cimentarsi con i dispositivi digitali (smartphone, tablet, computer, ecc.). Il dato più eclatante arriva dagli Stati Uniti: il 92% dei bambini inizia a usarli già nel primo anno di vita e all’età di due anni li utilizza giornalmente.  In Italia 8 bambini su 10 tra i 3 e i 5 anni sanno usare il cellulare dei genitori. E mamma e papa’ sono troppo spesso permissivi: il 30% dei genitori usa lo smartphone per distrarli o calmarli già durante il primo anno di vita, il 70% al secondo anno.

Ma i genitori sono davvero consapevoli dei rischi per la salute psicofisica di un utilizzo precoce dei dispositivi digitali? In realtà se ne parla ancora troppo poco.

La Società Italiana di Pediatria si è espressa sul tema, pubblicando un documento ufficiale sull’uso dei media device nei bambini da 0 a 8 anni di età. Tale documento è stato pubblicato nella rivista “Italian Journal of Pediatrics“, che ha individuato effetti positivi e negativi di tale utilizzo indicando l’età appropriata all’esposizione ai media device e le modalità giuste.

Le raccomandazioni della Società Italiana di Pediatria sono:

  1. Niente dispositivi tecnologici prima dei due anni, durante i pasti o prima di andare a dormire
  2. Limitare l’uso almeno ad un’ora al giorno nei bambini tra i due e i cinque anni, due ore al giorno per i bambini tra i cinque e gli otto anni
  3. Niente programmi con contenuti violenti
  4. Evitare l’uso di dispositivi tecnologici per calmare o distrarre i bambini

Nessuna criminalizzazione delle tecnologie digitali, anzi alcune applicazioni hanno mostrato di avere un impatto positivo sull’apprendimento in età prescolare, purché usate insieme ai genitori.  Ma come pediatri che hanno a cuore la salute psicofisica dei bambini non possiamo trascurare i rischi documentati di un’esposizione precoce e prolungata a smartphone e tablet”, spiega il Presidente della Società Italiana di Pediatria Alberto Villani. Numerose, infatti, sono le evidenze scientifiche sulle interazioni con lo sviluppo neuro-cognitivo, il sonno, la vista, l’udito, le funzioni metaboliche, le relazioni genitori-figli e lo sviluppo emotivo in età evolutiva.

La Società Italiana di Pediatria ha realizzato alcuni approfondimenti per i genitori sui rischi e le opportunità che derivano da un uso precoce dei dispositivi tecnologici:

Apprendimento: secondo degli studi recenti l’uso del touchscreen potrebbe interferire sullo sviluppo cognitivo del bambino in quanto è necessario una esperienza diretta e concreta con gli oggetti (ad esempio accarezzare un gatto su uno schermo e accarezzare un gatto veramente a livello tattile e di sviluppo del bambino sono differenti). Il bambino di età inferiore a tre anni può apprendere nuove parole attraverso dei video ma solo con la presenza di un genitore che può aggiungere ulteriori informazioni

Sviluppo: una quantità elevata di tempo davanti ad uno schermo può comportare una difficoltà nelle relazioni sociali e una bassa attenzione, aumento della difficoltà di concentrazione e comprensione. Le chat annullano l’attesa nell’interazione a due, con l’utilizzo di strumenti tecnologici il bambino non riesce a tollerare la frustrazione che deriva dall’attesa, dall’aspettare. Al di sotto di due anni le interazioni dirette dei più piccoli con i genitori e con il mondo esterno sono fondamentali e importanti per un sano sviluppo del bambino a livello cognitivo, emotivo e relazionale

Benessere: l’uso di strumenti tecnologici durante l’infanzia per più di due ore è associato ad un aumento del peso corporeo, questo perché di fronte ad uno schermo il bambino non consuma energie, ed anche a problemi comportamentali. Alcune evidenze suggeriscono che esista una correlazione tra dolore muscolare del collo e spalle dovute alla postura non adeguata che viene assunta

Sonno: uno studio recente ha concluso che i bambini tra uno e quattro anni che hanno una televisione in camera presentano una peggior qualità del sonno, paura del buio, incubi e dialoghi nel sonno

Vista: l’esposizione eccessiva ad uno schermo può comportare una secchezza oculare, avvertire una sensazione di corpo estraneo nell’occhio, bruciore

Udito: una esposizione a intensi livelli di rumore senza interruzione può portare ad una alterata percezione dei suoni e di conseguenza interferire con lo sviluppo del linguaggio.

Le tecnologie non sono né buone né cattive ma ciò che fa la differenza è l’uso che se ne fa. È dunque importante alla luce dei rischi possibili accompagnare i bambini nella maniera corretta alla scoperta di smartphone e tablet e degli altri strumenti tecnologici.

I nuovi media touchscreen, in particolare, hanno aumentato le possibilità di accesso dei bambini al di sotto dei tre anni alle tecnologie digitali, poiché il loro uso è immediato e intuitivo. L’uso di tali strumenti fin dalla più tenera età potrebbe incidere sulla creatività dei nuovi nativi digitali in erba. 

Il tablet è uno strumento fantastico per disegnare, giocare e imparare ma probabilmente un foglio di carta bianco e un pennarello potrebbero essere migliori strumenti di creatività e di stimolo alla ricerca di nuove forme di espressione individuale. Questi timori sono espressi in genere da psicologi dell’età evolutiva che conoscono bene l’importanza della capacità creativa nei bambini da uno a sette anni e che sanno bene quanto possa essere penalizzante negarla o limitarla, anche dentro confini tecnologici. L’uso frequente delle nuove tecnologie non sembra aiutare lo sviluppo della capacità sociali del bambino. Il tablet rischia di scoraggiare l’interazione sociale in anni nei quali nel cervello del bambino avvengono importanti sviluppi neuronali e neurgenerativi che condizioneranno la loro vita futura. Una prima conseguenza, derivante dall’isolamento nel quale si immergono bambini rapiti dal loro gadget tecnologico, è una minore capacità nella comunicazione.

Tra gli studiosi non tutti condividono tali timori e apprensioni. Secondo alcuni studiosi il tablet è uno strumento dalle potenzialità infinite e con un valore elevato per un apprendimento indipendente e autonomo. capacità delle nuove tecnologie di fare da stimolo positivo per lo sviluppo, neuronale, mentale e cognitivo, del bambino. Questi studiosi sottolineano anche la maggior facilità con cui i genitori possono determinare ciò che i bambini possono usare, decidendo quali programmi e contenuti scaricare, limitando navigazione di internet e videogiochi da usare. La possibilità di interventi con controlli parentali rende il tablet uno strumento più sicuro di quanto non sia un personal computer o uno schermo televisivo.

Sì al tablet, ma mai soli!

Una posizione intermedia, forse quella più condivisibile, è di non impedire l’uso delle nuove tecnologie ma di affiancare i propri figli e i bambini quando ne fanno uso. L’idea è di intervenire per proteggerli da immagini e contenuti inappropriati o non adeguati e di suggerire loro cosa e come fare per usare in modo intelligente il dispositivo e la tecnologia. Affiancare i figli è anche un modo per adempiere al ruolo di genitore e per non usare il gadget tecnologico per tenere calmo ed occupato il proprio figlio per salvaguardare il proprio tempo libero o di lavoro.

Il cambiamento che sta avvenendo è radicale e rivoluzionario, viverlo insieme ai propri bambini è probabilmente l’esperienza migliore che oggi un genitore possa fare.

 

Dott.ssa Cinzia D’Esposito – Psicologa, esperta in Psicodiagnostica Clinica e Peritale – per info: +39 3356138502

Le festività e il disagio psicologico: un legame sempre più tangibile

christmas-blues-la-tristezza-da-natale-preview-defaultTalvolta capita che nel corso delle festività natalizie – o in generale in vista di un periodo di vacanze obbligato – di non riuscire a tenere il passo con l’atmosfera di gioia e serenità che queste portano con sé, amplificate dai media. Chi soffre di un disagio psicologico da lieve a molto grave è solitamente suscettibile di un peggioramento proprio durante questo periodo. Ma come mai accade? Questo periodo dell’anno stimola molto la memoria e la relazione. L’uomo è un essere sociale con un grande bisogno di celebrazione e condivisione: le festività, gli anniversari, i compleanni, i traguardi scolastici, vengono festeggiati perché sono eventi che vogliamo tenere nella memoria personale e relazionale e che sono densi di significato antropologico e psicologico. I periodi di festa non sono, però, sempre vissuti in modo positivo, e celebrazione e memoria possono diventare, in alcuni casi, fonte di stress, ansia e depressione. Una persona con delle fragilità o che attraversa un momento complesso nella sua vita (ad esempio, qualcuno che sta vivendo un lutto, una persona sola, qualcuno che si sta separando, una situazione economica precaria) sicuramente sentirà questa pressione come maggiormente insostenibile. Anche in questo periodo dell’anno è importante ascoltare se stessi, seguire le proprie inclinazioni, prendersi cura di sé e delle proprie relazioni. Chiedere aiuto ad uno specialista è la soluzione migliore per fronteggiare la propria sofferenza emotiva. Il regalo più importante è quello che facciamo a noi stessi!

Lo psicologo e il segreto professionale

E’ bene sapere che in realtà lo psicologo è strettamente tenuto al segreto professionale (art. 11 del Codice Deontologico), pertanto non può rivelare notizie apprese in ragione del suo rapporto professionale nemmeno in un’eventuale testimonianza processuale (a meno di un’esplicita richiesta da parte dell’imputato).
Fanno eccezione a questa regola le notizie conosciute accidentalmente in ambiti differenti da quello professionale, oppure in caso di situazioni che prospettino gravi pericoli per la vita o per la salute psicofisica del soggetto e/o di terzi (art. 13 del Codice Deontologico). Si pensi a questo proposito il caso di un paziente che confessi al terapeuta di voler uccidere la propria fidanzata: se lo psicologo dovesse valutare questa minaccia come concretamente possibile dovrà riferirlo alle autorità competenti.  Lo psicologo non potrà, invece, riferire fatti per i quali il paziente possa essere esposto a procedimento penale nel caso in cui valuti non sussistere pericolo di vita per terzi (se, ad esempio, ammettesse di essere stato complice nel commettere un reato, il referto non dovrà essere stilato perché lo esporrebbe ai rigori della Legge penale).
Va fatta però una distinzione fra psicologo privato e psicologo del servizio pubblico.
L’obbligo al segreto professionale vale per entrambi, ma nel caso in cui lo psicologo venga a sapere di un reato (già commesso), se è uno psicologo privato non può comunque denunciare il paziente, mentre se si tratta di uno psicologo del servizio pubblico, per lui vale l’obbligo di denuncia, dal momento che si tratta di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni.
In altre parole, se un paziente confessa di aver commesso un reato in passato, se lo psicologo che ha di fronte è privato, questi non potrà violare il segreto, mentre se lavora presso il SSN (Servizio Sanitario Nazionale) e la “confessione” è avvenuta durante l’esercizio delle sue funzioni pubbliche, è obbligato a denunciare il proprio paziente.
Lo psicologo privato, quindi, si comporta quasi come un avvocato difensore; non può denunciare il proprio paziente, altrimenti rischia una denuncia penale dal paziente stesso (Art.622 del Codice Penale).
Esistono però delle deroghe al segreto professionale.
Qualora il reato confessato stia per essere reiterato con possibili lesioni gravi o morte di altri soggetti (compreso il paziente stesso), vi è la deroga per giusta causa.
E’ ugualmente considerata una deroga per giusta causa se è lo psicologo ad essere in pericolo di vita o di lesioni gravi.
Si riferisce comunque agli inquirenti solo lo stretto necessario e non i dettagli delle sedute.
Altri tipi di deroghe sono relative alla liberatoria effettuata dal cliente (deroga per consenso), che quindi autorizza lo psicologo a denunciare il reato riferito.
Le norme che riguardano questo argomento, sono prima di tutti alcuni articoli del Codice Deontologico degli Psicologi e, naturalmente, alcuni articoli del Codice Penale (c.p.) e del codice di Procedura Penale (c.p.p.), come descritto di seguito:
– Artt. 11 – 12 – 13 – 14 – 15 – 16 e 17 Codice Deontologico degli Psicologi.
– Art. 200 c.p.p.: “Segreto Professionale”.
– Art. 256 c.p.p.: “Dovere di esibizione e segreti”.
– Art. 362 c.p.p.: “Assunzione di informazioni”.
– Art. 334 c.p.p.: “Referto”.
– Art. 365 c.p.: “Omissione di referto”.
– Art. 622 c.p.: “Rivelazione di segreto professionale”.

Chi è lo Psicologo?!? Facciamo un po’ di chiarezza!

Ma.. chi è lo PSICOLOGO?! E lo PSICOTERAPEUTA ?! … Ma non avrò mica bisogno dello PSICHIATRA?!? O forse dovrei rivolgermi ad un NEUROLOGO?!

Il “mondo Psi” appare piuttosto caotico a chi ha bisogno di rivolgersi ad un professionista della psiche ma non sa quale sia più indicato per intervenire sulla propria specifica problematica. In effetti, non sempre la differenza tra i professionisti sopra citati appare così chiara e, soprattutto,  non tutti sono a conoscenza di quali siano le loro specifiche competenze! In questo articolo proverò, molto sinteticamente, ad illustrare le sostanziali differenze tra loro.

PSICOLOGO

Laureato in Psicologia (5 anni del vecchio ordinamento o 3+2 del nuovo ordinamento). In seguito alla Laurea, ha svolto il tirocinio post-lauream della durata di 1 anno (1000 ore). Ha superato l’Esame di Stato ottenendo l’abilitazione all’esercizio della professione di Psicologo e si è iscritto ad un Albo Nazionale degli Psicologi (Art. 1 L.56/89). Lo Psicologo mette in atto interventi psicologici mirati al benessere psicologico di chi si rivolge a lui. Nello specifico, egli svolge attività di prevenzione, promozione del benessere, diagnosi, consulenza, sostegno, abilitazione e riabilitazione in vari ambiti. Lo Psicologo per legge deve attenersi al rispetto delle regole del Codice Ontologico degli Psicologi Italiani. NON può somministrare farmaci.

PSICOTERAPEUTA

Laureato in Psicologia o in Medicina. Appartiene all’Albo Nazionale degli Psicologi (come lo psicologo) ma in più, dopo la Laurea, ha frequentato una scuola di specializzazione in Psicoterapia pubblica o privata – riconosciuta dal MIUR –  per minimo 4 anni  (di cui esistono diversi “orientamenti”), durante i quali potrebbe anche aver compiuto (non sempre è obbligatorio), un percorso di terapia “personale” sia per sé stesso che per motivi didattici. Gli approcci psicoterapici sono tanti e diversi, come ad es. la psicoanalisi, la terapia comportamentale,  la terapia sistemico – relazionale familiare, la terapia cognitiva, la terapia breve-strategica, etc. A differenza dello Psicologo, il suo intervento è finalizzato alla cura di disturbi psicopatologici; egli possiede tecniche e strumenti che gli consentono di aiutare il paziente con un intervento che va più in profondità. Lo Psicoterapeuta – Psicologo non può somministrare farmaci. Lo Psicoterapeuta – Medico può somministrare farmaci.

PSICOANALISTA

Laureato in Psicologia o in Medicina e successivamente iscritto all’Ordine degli Psicologi o dei Medici, dopo aver conseguito l’abilitazione. In seguito ha frequentato una Scuola di Specializzazione in Psicoanalisi. La Psicoanalisi è un tipo di approccio terapeutico (padre della Psicoanalisi è stato Sigmund Freud). Per diventare psicoanalista occorre necessariamente compiere un percorso di analisi personale. Lo Psicoanalista Psicologo non può prescrivere farmaci. Lo Psicoanalista Medico può prescrivere farmaci.

PSICHIATRA

Laureato in Medicina e Chirurgia. Appartiene all’Albo Nazionale dei Medici e in più, dopo la Laurea, ha frequentato una scuola di specializzazione in Psichiatria. Lo psichiatra tendenzialmente si occupa di fare diagnosi e di definire un trattamento farmacologico in presenza di un disturbo psichico, anche se d’ufficio lo psichiatra è anche psicoterapeuta, ma non psicologo.

NEUROLOGO

Laureato in Medicina e Chirurgia ed ha una specializzazione in Neurologia. Egli cura, attraverso terapia farmacologica, le malattie a carico del Sistema Nervoso Centrale e Periferico (es. Morbo di Alzheimer; Epilessia; Morbo di Parkinson; Sclerosi Multipla ecc.).

Frequentemente queste figure professionali si ritrovano a collaborare tra di loro, favorendo una visione più ampia della problematica portata dal paziente ed una presa in carico globale della persona.

Psicologo, psicoterapeuta, psichiatra: chi e quando?

Bene, adesso che abbiamo capito chi sono queste figure, a chi dobbiamo rivolgerci se abbiamo bisogno d’aiuto? Dipende. Dipende dal nostro bisogno, dalle esigenze che abbiamo, dalla motivazione ad intraprendere un percorso personale o meno. A volte sentiamo una spinta a chiedere aiuto e dobbiamo semplicemente ascoltarla e seguirla: una consulenza è il primo passo per decidere insieme allo specialista il percorso più indicato per ognuno. A volte serve una psicoterapia, altre volte bastano pochi colloqui, altre ancora c’è necessità di un ausilio farmacologico. Se il vostro medico di base vi conosce, potrebbe indirizzarvi lui stesso. Ma se non sapete a chi rivolgervi, probabilmente uno psicoterapeuta potrebbe aiutarvi a definire meglio la vostra domanda d’aiuto e a individuare un percorso che sia adatto per voi.